28 Aprile 2024
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L’impatto del coronavirus sull’immigrazione. L’esempio dell’associazione I Girasoli

Foto tratta da Facebook

In questi giorni di pandemia, tra le persone che operano nel terzo settore e continuano a lavorare regolarmente vi sono anche gli operatori e le operatrici dell’associazione I Girasoli Onlus. Nata a Mazzarino nel 2004, l’associazione è impegnata ormai da anni nell’assistenza a rifugiati e richiedenti asilo, a Caltanissetta e in diversi paesi della provincia. Abbiamo chiesto al presidente de I Girasoli, Calogero Santoro, quale impatto ha avuto il coronavirus sulla vita delle persone migranti e sulle attività legate alla loro inclusione sociale.

Quante strutture gestisce, attualmente, l’associazione I Girasoli? Dove sono ubicate, quante persone vi lavorano e quante sono ospiti…

«L’associazione I girasoli, attualmente, gestisce due progetti SIPROIMI (Ex SPRAR) per minori nei comuni di Mazzarino e Milena, in strutture da quindici posti ciascuno. Nei Comuni di Caltanissetta e Riesi, l’associazione gestisce due progetti per adulti con rispettivamente quaranta e venticinque posti, con la modalità di gruppi appartamento. Nel Comune di Sutera invece gestiamo l’accoglienza diffusa per famiglie in cui trovano rifugio cinquanta persone. In totale nei progetti sono occupati circa cinquanta operatori».

Quali sono i progetti che portate avanti in questo periodo di emergenza sanitaria?

Una delle tante iniziative organizzate dall’associazione I Girasoli, insieme ad altre realtà che si occupano di immigrazione.

«In questo periodo le attività progettuali con i beneficiari sono ridotte al minimo. Sono stati sospesi i tirocini per ridurre al minimo il rischio di contagio dei nostri ospiti. Nei centri per minori si fanno delle attività interne e con le misure di sicurezza del caso».

Posso chiederti come portate avanti le vostre attività? Se avete adottato le tutele particolari che si richiedono per il coronavirus e se avete fastidi legati alla particolarità del lavoro che svolgete…

«Certamente il nostro, come tutto quello del terzo settore, è un lavoro che non può chiudere per l’importanza e la delicatezza che riveste. Come dicevo prima, abbiamo ridotto al minimo le attività, cerchiamo anche di ridurre la presenza di operatori all’interno delle strutture e con i DPI (dispositivi di protezione individuale) previsti. I beneficiari sono stati informati e resi consapevoli di ciò che sta accadendo intorno a noi, lo abbiamo fatto con la collaborazione dei mediatori e con ausili video e cartacei in diverse lingue.

Al momento non ci sono casi di positività al coronavirus né tra gli operatori né tra gli ospiti delle nostre strutture. Gli ospiti sanno che devono uscire solo in caso di effettiva necessità perché sono persone responsabili e abituate, evidentemente, a situazioni di emergenze sanitarie nei loro paesi di provenienza. Arrivano diverse chiamate, da ex beneficiari, di solidarietà, ma anche di richiesta di informazione e di conforto.

“L’umanità è la religione migliore”

Molti hanno perso il posto di lavoro, che è costato tanta fatica conseguire. Gli sforzi fatti nel passato per l’integrazione di queste persone si stanno via via vanificando e sarà molto difficile ripristinare molti contratti alla fine di questa emergenza. Come al solito a pagare sono sempre i più vulnerabili».

In tempi normali, spesso assistiamo ad episodi di razzismo nei confronti delle persone migranti. L’emergenza da coronavirus ha determinato un peggioramento della situazione anche su questo versante? 

«Questa emergenza, se da un lato ha creato una pseudo comunità che si stringe a coorte cantando l’inno nazionale, dall’altro ha esasperato l’egoismo e l’individualismo da terrore sanitario. È aumentata la diffidenza tra le persone, perché chiunque può essere un potenziale untore, figuriamoci gli stranieri. Le persone straniere inoltre sono le più soggette ai controlli da parte delle autorità a seguito dei decreti che limitano la libertà di circolazione e le prime vittime dei solerti delatori. Meno male che questa emergenza non è arrivata in Europa con i barconi ma in business class».

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