20 Aprile 2024
L'opinione

Falsi miti neoborbonici. Una riflessione di Filippo Falcone

Filippo Falcone (foto di Pippo Nicoletti)

In questi anni in cui le formazioni politiche indipendentiste affollano, al Nord come al Sud, lo scenario italiano, in Sicilia si assiste al diffondersi di una sorta di “revisionismo” nei confronti del Regno Borbonico, interpretato come momento di prosperità per l’isola, di contro al successivo Risorgimento e all’Italia unita. In merito a questa propaganda e a questo falso mito, riceviamo e pubblichiamo le riflessioni di Filippo Falcone, studioso di Storia contemporanea che si è occupato, in passato, anche di Meridionalismo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Meridionali nella Torino degli anni ’70 (prefazione senatore Luigi Manconi); Lotte politiche e sociali nel nisseno 45/60 (prefazione senatore Emanuele Macaluso), Fame di Terra e pane (prefazione prof. Francesco Renda), Lotte e conquiste del lavoro (prefazione Giorgio Epifani, ex segretario nazionale Cgil), Il contributo dei siciliani alla Questione Meridionale, Antonio Gramsci ad Ustica ed altri scritti. Ha tenuto laboratori di Storia contemporanea nelle Università di Palermo e Torino. È dipendente del Miur.

«Negli ultimi tempi si registra sempre più nel Sud un certo sentimento di rivalsa nei confronti del processo unitario. Questi rigurgiti neoborbonici sono anche favoriti da pubblicazioni come quelle di Pino Aprile, sull’esempio del suo libro “Terroni”, che mirano più alle vendite che non alla scientificità storica (non risulta abbia titoli di studio e, come giornalista, ha scritto per Gente e Oggi e diretto il mensile Fare vela).

Si tratta di una metodologia del fare storia poggiata su falsi miti, retorica e propaganda, che semplifica al massimo eventi che già di suo non sono di facile interpretazione.

Gli storici seri sanno bene che il Risorgimento fu un processo molto più complesso di quello che si legge sui libri di Storia. Guidato da personalità in forte contrasto tra loro: Cavour e Garibaldi, Vittorio Emanuele e Mazzini. Ma la Storia, quella fatta seriamente, non deve aver paura di rilevare contraddizioni, debolezze, storture di un’epoca, purché si tenga lontana, appunto, da falsi miti, retorica e propaganda. Nessuna autocritica pare invece riscontrarsi nell’assetto mitologico e propagandistico del cosiddetto “revisionismo neoborbonico”; che evidentemente non ha mai approfondito scritti come quelli di Luigi Settembrini o opere sul Risorgimento come quelle di un Adolfo Omodeo. Quella vulgata si limita solo a buttare fango sull’epopea risorgimentale che, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, rimane comunque una stagione memorabile della nostra storia nazionale. Voler descrivere, di contro, il Regno delle due Sicilie come il paese del Bengodi, oltre che a falsificare la Storia, assume, per certi versi, anche aspetti caricaturali.

Ora, di corbellerie se ne sono sempre scritte e nessuno potrà mai farci nulla, ma sostenere che il Regno Borbonico fosse un regno di banche, di flotte navali, di ferrovie, di industrie, di agricoltura, di viabilità ecc. fa davvero sorridere. Diciamo solo che qui l’analfabetismo, nella metà dell’Ottocento, era dieci volte maggiore che in altre aree del Paese, che circa la metà del territorio era in mano al baronato più retrivo, così come il sistema tributario e la giustizia. Proprio sul farraginoso squallore legislativo – che mescolava diritto romano, feudale ed ecclesiastico – si basava lo strapotere dell’aristocrazia e della Chiesa. Mancava completamente una classe che facesse gli interessi dello Stato e della cittadinanza, come invece accadeva già in paesi come l’Inghilterra. In questo quadro il popolo ne usciva completamente abbrutito. L’opera riformatrice, nell’arco del Settecento, portata avanti da un ministro come Bernardo Tanucci o da un viceré come Domenico Caracciolo, entrambi di formazione illuministica, era stata assai marginale e isolata e non aveva intaccato affatto il potere della feudalità, né aveva impedito lo sperpero ingentissimo di somme da parte di casa Borbone. Si pensi, ad esempio, alle costruzioni di varie regge come quella di Caserta, di Portici, di Capodimonte; un fasto che oggettivamente strideva con lo stato di profonda miseria in cui versava il popolo siciliano. Le condizioni della Sicilia erano poi, addirittura, più infime di quelle del napoletano, peggiore era la situazione sociale e tributaria. Di contro come negare invece che la società piemontese, in parte anche per l’influenza della vicina Francia, negli stessi decenni, era più vitale, seppur anch’essa con i suoi limiti, ma certamente avanti. La nobiltà era qui più di stampo imprenditoriale, di formazione militare e burocratica, che non invece esclusivamente latifondista e parassitaria come in Sicilia. Lo Stato piemontese, più evoluto economicamente, nelle aree dove si presentava più debole, come in Sardegna, aveva inviato un ministro efficiente come Bogino, per risollevare l’isola dalla sua infelice condizione. Possiamo quindi dire che un sistema come quello piemontese aveva le carte in regola per intestarsi la regia di un processo risorgimentale che si stava avviando e che avrebbe portato poi all’Unità d’Italia.

Se poi vogliamo dire che fatta l’Italia non si riuscì a colmare l’abissale divario tra Nord e Sud, questo è vero, ma si tratta di un’altra storia. Si tratta di tirare in ballo le classi dirigenti che hanno espresso le nostre aree nei decenni post-unitari, e sino ai nostri giorni. È inutile dunque buttare fango su personaggi come Giuseppe Garibaldi, senza, peraltro, averne mai letto una riga di biografia.

Ci dobbiamo solo augurare che questo nostro Paese acquisisca maggiore conoscenza della Storia e più serietà di giudizi e che i cittadini sappiano distinguere tra realtà storica e propaganda, tra vero e falso. Anche se, purtroppo, viviamo in un momento dove marginale è il peso del sapere e della cultura; ma speriamo sempre in tempi migliori».

 

 

 

 

 

 

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