27 Luglio 2024
Buona idea

La sinistra non rimuova la sua storia: la lezione di Filippo Falcone alla Scuola di Formazione politica del PD

Filippo Falcone tiene la sua lezione alla Scuola di Formazione politica organizzata dal PD

Vogliamo offrire ai nostri lettori la possibilità di leggere la lezione tenuta dallo studioso Filippo Falcone alla Scuola di formazione politica intitolata a “Mario Arnone” e organizzata dal circolo PD “Guido Faletra” e dai giovani democratici che fanno capo al circolo “Adnan Siddique”.

Filippo Falcone si occupa dello studio della Sicilia in età contemporanea ed è giornalista pubblicista, dipendente del Miur e socio dell’Istituto Gramsci Siciliano.

Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Meridionali nella Torino degli anni ’70 (prefazione senatore Luigi Manconi); Lotte politiche e sociali nel nisseno 45/60 (prefazione senatore Emanuele Macaluso), Fame di Terra e pane (prefazione prof. Francesco Renda), Lotte e conquiste del lavoro (prefazione Giorgio Epifani, ex segretario nazionale Cgil), Il contributo dei siciliani alla Questione Meridionale, Antonio Gramsci ad Ustica ed altri scritti. Filippo Falcone ha tenuto laboratori di Storia contemporanea nelle Università di Palermo e Torino e ha diretto la rivista “Studi Storici Siciliani” curata dal Consorzio Universitario di Agrigento. Tra gli incarichi ricoperti da Falcone tra gli anni Novanta e Duemila, quello di capogruppo dei DS alla Provincia di Caltanissetta e di vice sindaco di Sommatino.

Ecco la sintesi della lezione dedicata alla sinistra e alle lotte sociali nel Nisseno:

Quadro generale

«Il titolo di questa iniziativa: La sinistra e le lotte sociali nel nisseno, implicherebbe parlare di diverse lotte politiche e sociali che investirono la nostra provincia, e la Sicilia intera, dopo la Seconda guerra mondiale e nei decenni successivi. Certamente quelle contadine e minerarie sono in testa, ma ve ne furono anche altre, come quelle degli edili, con figure come il vecchio militante Michele Ferrara; quelle per il cooperativismo femminile con Letizia Colajanni ed Enrichetta Casanova; successivamente quelle per il comparto della zootecnia con Totò Genco; ed ancora quelle per il petrolchimico, che coinvolsero soprattutto l’area del gelese, ma anche altre.

Diciamo subito che nell’immediato secondo dopoguerra le campagne siciliane sono ancora caratterizzate da una forte predominanza del latifondo, che il fascismo, con il suo tentativo di spezzettamento del feudo, non era riuscito a scardinare.

I contadini sino ad allora erano vissuti al limite della sopravvivenza, all’interno di questi immensi feudi, sotto il controllo dei gabelloti assoldati dalla mafia agraria che rispondeva, a sua volta, all’assenteista aristocrazia terriera.

Caduto il fascismo, e nati i primi governi di Unità nazionale, nel 1944, abbiamo il varo dei decreti Gullo (e poi Segni), da parte dei primi governi democratici e antifascisti, di cui facevano parte anche i comunisti. Con questi provvedimenti si concedevano, attraverso le Prefetture, le terre alle cooperative contadine, così come venivano approvati provvedimenti che andavano dalla giusta ripartizione dei prodotti, all’imponibile di manodopera ecc.

Da quel momento le campagne venivano scosse da impeti di riscossa. I contadini si davano una prima organizzazione e, sotto la guida dei rinati sindacati e partiti della sinistra, rivendicavano le terre incolte e mal coltivate dei latifondi. Da lì a poco, il movimento per la terra avrebbe assunto sempre più grandi dimensioni.

In questo quadro la nostra provincia rappresentò, sin da subito, l’epicentro per eccellenza di quelle lotte. Nel novembre 1946, proprio a Caltanissetta, si svolse il I° congresso regionale per la Riforma Agraria. I contadini per la prima volta elaborano un loro progetto programmatico. Cercarono cioè di acquisire, da un lato una base di massa per una vasta azione di lotta, dall’altro elaborarono delle embrionali proposte rivendicative che andavano dall’imponibile di mano d’opera alla proroga delle concessioni, alla revisione dei contratti di colonia, di mezzadria, di compartecipazione ecc.

Dallo stesso congresso nisseno uscirono anche le nuove linee-guida nell’ambito delle quali si sarebbero mosse le organizzazioni sindacali in base alle nuove leggi. Essenzialmente si mirò a tre grandi questioni: la limitazione dell’estensione della grande proprietà terriera in mano agraria; la costituzione di cooperative agricole in rete tra loro e la riforma dei contratti agrari.

Quel 1946 rappresenta per la Sicilia, e per la stessa provincia di Caltanissetta, l’anno dell’attacco al latifondo. Sorprendente in quel frangente sarà la capacità organizzativa e di collegamento che i sindacati e i partiti della sinistra, con in testa il Pci e la Cgil, riuscirono ad avere con i contadini.

Nell’area nissena si poté contare su un gruppo di giovani dirigenti come Guido Faletra, Emanuele Macaluso, Luigi Cortese, Salvatore La Marca, Pompeo Colajanni, Luigi Di Mauro ed altri, che con intelligenza guidarono quelle battaglie che coinvolsero pressoché tutti i territori comunali.

Si aprì cioè in quella fase la grande epopea del movimento per la terra, dove paesi e città furono scossi da un vero e proprio impeto di riscossa, dopo secoli di sfruttamento tramandato da padre in figlio.

Il movimento contadino, assunse, via via, una dimensione tale, seguita dalla vittoria elettorale alle Regionali del 1947 (con la lista del Blocco del Popolo, che univa comunisti e socialisti), a cui andava data una risposta da parte delle forze reazionarie. Mi riferisco al tragico episodio di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, dove la banda Giuliano spara sui contadini che festeggiano la festa del lavoro, uccidendo undici persone tra donne, bambini, uomini e anziani e ferendone una cinquantina.

Quel giorno la mafia (e non solo la mafia) lancia il messaggio che l’assetto dei privilegi, ossia le terre dell’aristocrazia mafiosa, non vanno toccate e che le sinistre in Sicilia vanno a tutti i costi fermate. Dopo Portella moltissime saranno infatti le sedi comuniste e socialiste, le camere del lavoro, le associazioni di categoria, distrutte e devastate, come decine saranno gli assassini per mano mafiosa di dirigenti del movimento contadino e democratico; delitti che rimarranno quasi tutti impuniti.

Nonostante ciò il movimento contadino comunque andrà avanti almeno per tutti gli anni Cinquanta e in parte Sessanta.

La politica del doppio gioco

Certo, questo tra mille ostacoli, tra voluti ritardi nell’attuazione delle leggi di Riforma agraria, che saranno sempre presenti. Se infatti una parte della Dc, con le cooperative cattoliche, aveva sposato la lotta per la terra, i suoi gruppi dirigenti presto iniziarono a manifestare una “doppia anima” (che fu poi quella posta in essere della Dc siciliana e nazionale per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta) volta cioè alla ricerca di compromesso con i ceti parassitari e del notabilato agrario dell’Isola.

Questi meccanismi ebbero il loro manifestarsi soprattutto nell’inquinamento mafioso della neo Regione siciliana, espressione evidente di quel connubio tra politica, Blocco agrario e mafia, che, tuttavia, non bloccò l’eccezionale ondata di occupazioni di terre. Decine di migliaia di ettari vennero occupati nonostante la repressione scelbiana e il movimento contadino che continuò a dilagare, tanto da costringere l’Ars a varare, su pressione socialcomunista, una sua legge di Riforma Agraria, destinata, però, ad essere sistematicamente sabotata con la famosa “guerra della carta bollata”.

Questa “guerra della carta bollata” consisteva nella scesa in campo in difesa degli agrari dei più illustri avvocati siciliani di allora, (vicini alla Dc e alla destra): Gioacchino Scaduto, Pietro Virga, Lauro Chiazzese, Orlando Cascio ed altri.

Il Pci più volte denunciò come quelle personalità, presentando i ricorsi a favore degli agrari, erano in grado di influenzare fortemente l’attività degli organi regionali e soprattutto dell’Ente di Riforma Agraria. Il personale regionale, d’altro canto, era stato assunto con i peggiori metodi di clientelismo politico, privilegiando i rampolli delle più note famiglie mafiose o chi vicino ad esse. Le connivenze, pertanto, diventarono un fatto normale. Solo così si spiega che, negli anni successivi, gli agrari riuscirono a bloccare quasi del tutto l’attuazione della Riforma Agraria in Sicilia.

Nello stesso tempo venne attuata anche una colossale truffa ai danni dei contadini, con operazione di vendite di terre, in violazione alle stesse leggi, come denunziò più volte la stessa Federazione del Pci di Caltanissetta alla Commissione nazionale antimafia, documentando dettagliatamente fatti, episodi, circostanze (i più significativi erano quelli degli ex feudi Rigiulfo, Deri, Montecanino, Mustomuxaro, Mustogiunto ecc.). Terre acquistate dai contadini delle cooperative, che, dopo aver pagato cambiali per anni, si vedevano adesso costretti ad abbandonarle perché oppressi dagli interessi e dall’indebitamento.

Riflessioni

Ecco, molto succintamente, questo è il quadro generale.

Se ci pensiamo, oggi quelle lotte, quelle battaglie, sembrano distanti anni luce da noi. Sembrano essere state lotte e sacrifici inutili, per la Sicilia che è venuta dopo. Ma è davvero così?

Certo, il processo di riscatto dei contadini a cui la Riforma Agraria aspirava, è vero, in buona parte fallì. A quelle occupazioni di terre sarebbero dovuto seguire investimenti di capitali, strumenti tecnici, opere pubbliche, bonifiche, strade interpoderali, case coloniche, elettrificazione, canalizzazioni idriche, ecc.

Così, purtroppo, non fu!

Si ebbe come l’impressione che quei provvedimenti fossero stati varati in maniera “mal digerita”, sol perché spinti dalle forze della sinistra, dal Pci in testa, ma una volta esaurita la fase dei governi di Unità nazionale, i processi avviati dalle leggi di Riforma Agraria furono via via abbandonati; anzi osteggiati.

Ricordiamo, peraltro, che buona parte della burocrazia, specie quella ministeriale e prefettizia, aveva allora ancora forti incrostazioni fasciste.

Certo, va detto che ci furono anche degli errori da parte della sinistra. Uno dei più gravi fu quello di aver lasciato quasi soli i piccoli assegnatari. La rete di cooperativismo presto di sfilacciò. La forza d’urto della lotta – come era naturale – si affievolì e quasi cessò; come le richieste delle organizzazioni sindacali e di categoria.

Sembrò quasi che si fosse stati più interessati all’aspetto “rivendicazionistico”, quello “dell’assalto al latifondo”, che “al dopo”: ovvero al richiedere strumenti per la realizzazione di una vera politica di miglioramento fondiario.

Per molta gente, dunque, non poté che aprirsi la strada dell’emigrazione, dello svuotamento delle campagne. L’emigrazione portò via in quei decenni circa i due terzi dei lavoratori agricoli.

Già dalla metà degli anni ’60 la questione agraria cessò di essere l’elemento centrale della vita politica e sociale della Sicilia e dell’Italia. Anche perché nel complesso la Riforma Agraria aveva deluso fortemente le aspettative dei contadini. In Sicilia la distribuzione era stata quella dei terreni peggiori; per lo più privi – dicevamo – di infrastrutture e di investimenti.

L’Elogio del latifondo, manifesto agrario per eccellenza del conte Lucio Tasca Bordonaro, non era stato dunque del tutto archiviato.

Chi, tra i contadini, era riuscito ad avere un fazzoletto di terra era stato solo il 10% sui circa 145 mila che ne avevano fatto richiesta. Basterebbe già solo questo dato per trarre le dovute conclusioni: insomma le terre distribuite furono poche e per lo più scadenti!

Dal ‘51 al ‘71 lasciarono la Sicilia più di 1 milione di persone.

Ma allora in Sicilia nulla mutò? Fu tutto un fallimento?

Certamente NO!

Il latifondo fu comunque abbattuto, smembrato, spezzettato. Il fatto è purtroppo che la smemoratezza tende spesso a cancellare la Storia. E allora va detto con forza che senza la Riforma Agraria la Sicilia non avrebbe avuto nessun accesso alla modernità.

Il vecchio “mostro” del latifondo, sul quale si era basata tutta l’ossatura della società siciliana, era stato definitivamente sconfitto e con esso il sottosviluppo delle masse, l’analfabetismo.

Ecco, secondo me, la sinistra (o quello che di essa oggi rimane) dovrebbe un po’ più spesso ricordare queste proprie radici, che sprofondano in quella Storia, in quei 52 compagni, dirigenti politici e sindacali, uccisi dalla mafia tra il ’44 e il ’60, per una Sicilia senza baroni.

Così come va ricordato che quella stagione fu un eccezionale momento di crescita della società meridionale e siciliana; prima ancora che politica, morale. Significò la definitiva spallata ad un mondo di privilegi, il superamento dell’arretratezza a cui le masse erano state tenute per secoli. Fu sicuramente l’approdo, per tanti uomini e donne, a condizioni di vita migliori, più umane.

Classi dirigenti e Politica

Ma un’altra breve riflessione è quella sui gruppi dirigenti che guidarono quelle lotte e di quanto il loro esempio oggi – seppur nel mutare dei tempi, delle questioni, delle problematiche – manchi fortemente alla Politica.

Una classe dirigente, quella, che – come scrisse il prof. F. Renda nella prefazione ad un mio lavoro di qualche anno fa proprio sulle lotte contadine – nonostante i limiti, le deficienze, le miopie, seppe abbattere un sistema, quello del latifondo, che resisteva da oltre duemila anni, cioè da quando la Sicilia era diventata provincia romana. Un sistema secolare che aveva resistito all’urto della Rivoluzione francese, dell’unificazione d’Italia, delle due guerre mondiali. Una classe dirigente che in questo territorio aveva espresso figure come Guido Faletra.

Quando, molti anni fa, pubblicai, con la prefazione di E. Macaluso, un libro su Faletra, prendendo contatti con gli archivi di Montecitorio (dove sono custoditi tutti gli atti parlamentari), rimasi colpito dall’immensa mole di lavoro che aveva prodotto nei suoi non molti anni di attività parlamentare (interventi, proposte di legge, interpellanze, interrogazioni, relazioni di minoranza, interventi in commissione). Questo solo dal luglio 1953, anno in cui era stato eletto alla Camera, al marzo 1962, anno della sua prematura morte ad appena 42 anni.

Ma stessa cosa si potrebbe dire di quella generazione di dirigenti politici, sindacali, di parlamentari, che citavo poc’anzi: La Marca, Colajanni, Macaluso, Di Mauro, Arnone ed altri. Ecco, io penso che la qualità della rappresentanza politica dovrebbe ritornare ad essere un tema fondamentale, specie in formazioni politiche che, in qualche modo, provengano da quella tradizione. Ma a questo aggiungerei anche un ripensamento stesso del concetto di Politica e di Sinistra.  

Mi pare che oggi vi sia un generalizzato sentire come di un declino del concetto di Politica (almeno come strumento di trasformazione della società). Come se nulla ci si debba aspettare ormai dalla classe politica. E questa è la cosa più brutta che possa accadere in una società, in una democrazia (non è solo populismo, è un sentire diffuso della gente). In questo quadro, secondo me, rientra anche un certo smarrimento della Sinistra, l’affievolimento del concetto stesso di rappresentanza dei bisogni della gente, del lavoro – ma anche di quelli che un lavoro non ce l’hanno – a cui pare nessuno dia più voce. Il rischio del crollo dei capisaldi illuministici della Rivoluzione francese: la Libertà, l’Uguaglianza, la Fraternità, una volta elementi-guida della “sinistra storica”, che oggi sembrano svaniti o, nel migliore dei casi, inefficaci, vacui. Parlo della Sinistra perché è quella che mi sta più a cuore e che non dovrebbe mai distogliere lo sguardo dalle questioni reali ed esistenziali delle persone: il diritto alla salute, all’istruzione e alla qualità della vita E ancora le nuove povertà, il disagio sociale, il mondo del lavoro, il futuro per i giovani, la sostenibilità ambientale, ecc. È questa la casa della sinistra!

Tuttavia, non bisogna mai smarrire le grandi speranze di un futuro migliore, anche se spesso i prezzi pagati alla Storia sono sempre più alti dei risultati, ma questo la sinistra, nel portare avanti le sue battaglie, lo ha sempre saputo.

L’importante è non smarrire mai la memoria.

Concludo citando la frase di un libro che si intitola La memoria smarrita, di Antonietta Profita (che fu una delle protagoniste delle lotte contadine in Sicilia): “la memoria storica smarrita provoca spesso la coscienza politica smarrita”. E questo noi non lo dobbiamo permettere, anche per le generazioni future».         

 

 

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