26 Aprile 2024
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Le occasioni mancate di una generazione: il punto di vista di una lavoratrice. Intervista a Patrizia Sanapo

Patrizia Sanapo

Dopo l’esperienza della pandemia, in tanti ci chiediamo se ce la faremo.  Riusciremo ad uscirne indenni, sotto il profilo sanitario ma anche dal punto di vista economico? Torneremo a lavorare come prima? In realtà, Caltanissetta ha conosciuto la crisi economica e sociale ben prima che vi fosse il Covid-19 e allora, chi appartiene alla generazione degli Ottanta può chiedersi come andrà, ma anche fare un primo bilancio su com’è andata e individuare le radici di alcuni fenomeni che oggi si sono aggravati. Ritorna come un mantra il tema del lavoro, accompagnato da quello delle occasioni mancate di una generazione, la prima a passarsela peggio rispetto ai propri genitori. Patrizia Sanapo, sei anni nell’abbigliamento e ventisei nel settore della ristorazione, ci ha raccontato il suo punto di vista e dalle sue parole è uscito lo spaccato di una città, con le sue luci e le sue ombre.

Intanto inizierei col chiederti quanti anni hai e quando hai iniziato a cercare lavoro. Qual è stata la tua prima occupazione? In che anno siamo e in che zona di Caltanissetta…

«Ho 55 anni («con fierezza» aggiunge ridendo) e il lavoro non l’ho mai cercato. L’ha cercato mio padre per me, quando ho compiuto diciotto anni. Era il 1983 e me lo trovò in un negozio di abbigliamento. Ho lavorato per sei anni in corso Vittorio Emanuele, anche perché sono una persona abbastanza costante nelle mie cose».

Ai tempi del tuo primo lavoro, ricordi, a grandi linee, com’era Caltanissetta, dal punto di vista dell’occupazione, della classe politica che la rappresentava, dei giovani e della loro vita, dell’economia…  

«Caltanissetta, in quel periodo, dal punto di vista commerciale era florida e da noi venivano a comprare da tutta la provincia e anche dalla provincia di Agrigento. Ricordo i negozi pieni, e, nei prefestivi, non si andava neanche a mangiare. Allora Caltanissetta era una città abbastanza viva, dove i ragazzi non avevano motivo di andarsene perché non mancava nulla. L’operazione “Leopardo” ha dato un duro colpo all’economia della città, che non si è più ripresa».

Nel senso che l’operazione “Leopardo” non avrebbe dovuto esserci?

«No. Certo che doveva esserci ma non si è riusciti a dare un’alternativa all’affare dell’edilizia. Gli errori sono venuti dopo perché chi poteva investire a Caltanissetta non l’ha fatto e non abbiamo trovato una strada diversa per risollevare l’economia».

Com’era il settore in cui hai iniziato a lavorare? Partiamo dal meccanismo di reclutamento dei lavoratori e delle lavoratrici…

«Esisteva il colloquio diretto: ti presentavi, se piacevi, bene, altrimenti niente. Il mio era un settore prevalentemente femminile, con pochi uomini. Contava solo la bella presenza, non ti chiedevano nient’altro».

Com’era dal punto di vista del rapporto con i datori di lavoro e con i colleghi o le colleghe…

«Col titolare ci si dava del lei, anche se ci si levava di cinque anni. Questa cosa mi è servita perché il distacco procura rispetto da ambo le parti».

E dal punto di vista remunerativo?

«Nel nostro settore capitava spesso di essere messe in regola part time, anche se facevamo full time. Anche se non c’era una crisi economica che lo motivasse, lo sfruttamento esisteva ugualmente. Secondo me è proprio un fatto culturale, prima che economico».

Avevate, dalla vostra, sindacati o organizzazioni che si interessavano a voi concretamente, che vi difendevano? E gli organismi preposti al controllo?

«Concretamente non c’era alcun controllo e non ho mai visto una persona del sindacato girare per negozi o locali. Quando presi coscienza del fatto che le nostre paghe erano troppo basse, andai dalle mie colleghe e dissi loro di unirci e fare qualcosa. Mi fu risposto da tutte che non era il caso perché rischiavamo il licenziamento, mentre altre avrebbero sicuramente preso il nostro posto. Le battaglie da soli non si possono fare».

Forse un errore che ha riguardato l’intera generazione degli Ottanta, in ogni ambito. Gli storici hanno definito gli Ottanta, gli anni del “riflusso”, caratterizzati dal disimpegno politico e sociale e dal ripiegamento nella sfera del privato. Chissà, forse la nostra generazione avrebbe dovuto lottare di più…

«Siccome il lavoro non mi è mai mancato, non mi sono mai preoccupata di denunziare nessuno e forse questo è stato un grosso errore, mio e di altri».

Se dovessi istituire paragoni tra gli ambienti che hai frequentato e gli stessi ambienti oggi, trovi che vi siano delle differenze sostanziali? Vi sono stati cambiamenti in meglio o in peggio, oppure tutto è rimasto uguale? Perché?

«La situazione lavorativa è peggiorata, anche a causa del caro euro».

A un certo punto della tua vita, hai cambiato settore. Puoi raccontarmi cosa ha significato dal punto di vista lavorativo e di vita passare da un settore ad un altro? Riscontravi analogie tra i diversi ambiti?

«Ho cambiato settore perché amavo il lavoro del barman. Decisi che mi sarebbe piaciuto fare questo mestiere e ritengo di averlo fatto bene per diversi anni. Dal 1993 lavorai anche nella ristorazione, che era ben pagata a differenza dell’abbigliamento, e mi andava bene, perché volevo il contatto con il pubblico. Allora l’umanità mi piaceva ancora, perché era diversa. Con gli anni, anche nella ristorazione la paga andò diminuendo, c’è stata una retrocessione».

Quali sono, secondo te, i motivi di questa retrocessione?

«Le persone che aprono i locali spesso sono fuori dal mestiere e la professionalità del lavoratore non sempre viene apprezzata. Forse perché la professionalità la devi pagare e qui il lavoratore non è considerato un investimento. Qui si investe sulle cose: un bancone nuovo, tecnologia, ma non sul lavoratore, che è invece considerato un peso. Spesso mi si è rimproverato di essere burbera ma nessuno si chiede il perché. Quando ti fai molte ore di lavoro di seguito e non sei pagato adeguatamente, il sorriso si spegne. Cercare un lavoro a Caltanissetta spesso significa scontrarsi con persone che cercano tuttofare da pagare poco. Essere donna, poi, diventa un handicap da scontare».

Cioè?

«Già a trentacinque anni mi sentivo dire che ero troppo vecchia anche nel settore della ristorazione. Quando l’uomo ha una certa età viene considerato uno che ha esperienza, mentre se ad avere una certa età è una donna, allora viene considerata vecchia. Posso dire che Caltanissetta è un ambiente estremamente maschilista e che se fossi stata un uomo, con la mia esperienza, avrei avuto il ruolo di responsabile di sala. Io e molte mie colleghe di allora siamo senza pensione e dobbiamo continuare a cercare un lavoro per vivere. Qualcuna fa l’assistente domiciliare, nel luogo comune detta badante, come se fare l’assistente domiciliare fosse una passeggiata».

A te, ad esempio, un lavoro come questo non andrebbe bene?

«Per fare l’assistente domiciliare occorrono doti che a me mancano. Smettiamola di pensare che chi non ha un lavoro possa e debba fare qualsiasi cosa. Esistono persone usurate dalla fatica alle quali non si può chiedere di fare tutti i lavori possibili pur di avere un’occupazione. Se così fosse, non dovremmo lamentarci del fatto che nelle RSA gli anziani vengano trattati male da gente che non ama prendersi cura di loro. Per fare bene un lavoro, occorre che questo lavoro piaccia: occorre essere portati, appassionarsi ad esso, altrimenti diventa una fatica inutile per tutti».

Cosa comporta cercare un lavoro a Caltanissetta? Quali sono gli ostacoli in cui ci si imbatte?

«Innanzitutto c’è una scarsità di richieste di lavoro allucinante a Caltanissetta. Sono poche e tra l’altro richiedono tutte una giovane età e una paga molto bassa. La paga bassa significa che qua si parla di tre euro / tre euro e cinquanta l’ora. Come tu ben sai, una persona della mia età non si può ancora permettere di guadagnare queste cifre. Tra l’altro in nero, per la maggior parte delle volte, quindi a un certo punto uno decide di dire basta. Uno a un certo punto spera in meglio. I sacrifici li puoi fare quando sei giovane, quando raggiungi una certa età, i sacrifici è il caso di smettere di farli. Si dovrebbe, come dire, raccogliere quello che si è seminato».

Secondo te, esistono soluzioni a questo stallo e attraverso quali azioni passano?

«Per uscire da questo stallo, credo che dipenda tutto dalle politiche del governo, politiche che non ci sono sul lavoro. Qui si danno incentivi a tutti, incentivi agli industriali per conservare posti di lavoro che poi non saranno conservati. Incentivi per tutto, tranne che per nuove assunzioni o nuove aperture d’impresa. E tra l’altro, non ci sono i controlli. Non ci sono i controlli da parte di chi dovrebbe controllare e d’altro canto c’è anche una mancanza di agevolazione per chi assume. A volte le agevolazioni ci sono state, ma qui, per cultura, l’agevolazione va sempre a favore del datore di lavoro, nel senso che se ci sono le agevolazioni, io mi piglio l’agevolazione, come datore di lavoro, e a te, come dipendente, ti do sempre quello che ti davo prima, mettendoci il minimo indispensabile. Non so se mi sono spiegata con questo discorso».

Il lento ritorno alla normalità, dopo la pandemia, migliorerà questa situazione?

«Secondo me, no. Anzi, forse la peggiorerà».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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