23 Aprile 2024
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Pandemie d’altri tempi: il Colera Morbus a Caltanissetta nel 1867. Un racconto di Filippo Falcone

Filippo Falcone

Sebbene, in questi giorni, ognuno di noi rimanga attonito e spaventato davanti alla situazione attuale, le pandemie non sono cosa nuova nella storia umana e non lo sono neanche per la provincia di Caltanissetta. Filippo Falcone è uno storico al quale si devono tante ricerche sulle lotte operaie e contadine accadute nella nostra provincia nel secolo scorso. Il dottore Falcone è  stato anche assessore e vicesindaco di Sommatino, consigliere comunale e provinciale ma oggi, nella veste di storico, ci racconta il Colera Morbus che si abbattè nel 1867 in provincia di Caltanissetta. Pubblichiamo di seguito il suo intervento:

«La vicenda legata al coronavirus che in queste settimane sta stravolgendo le nostre abitudini, rendendoci tutti un po’ più fragili e malinconici, ci deve invitare a volgere lo sguardo indietro e ad essere ottimisti. Ciò, al di là della facile retorica, consapevoli che quello che sta accadendo oggi fa parte della storia dell’uomo e che già in passato è accaduto e, di volta in volta, superato.

Guardando agli ultimi due secoli passati potremmo ricordare, ad esempio, l’epidemia del 1837, che colpì pesantemente anche la Sicilia o la Spagnola del 1918, proveniente dall’America, che raggiunse l’Europa mietendo milioni di vittime. Ma interessante pare esaminare la pandemia colerica del 1867 che flagellò il nostro territorio.

Il morbo giunse nel nisseno nel febbraio, interessando per primi i comuni di Montedoro, Delia e Terranova (Gela), per poi espandersi a tappeto in tutti gli altri paesi. Durò sino alla fine dell’estate di quell’anno, e, su una popolazione allora di circa 223.000 abitanti della provincia, provocò oltre 7.000 morti.

Il maggior numero di vittime si ebbe nel capoluogo Caltanissetta e a seguire a Riesi, Mazzarino e Sommatino (dove si contarono 132 decessi su una popolazione di 4.324 abitanti).

Dei primi provvedimenti emanati dalla Prefettura ci informa “La Gazzetta Provinciale” che rende note le misure sanitarie da adottare. Si richiamano gli amministratori locali a porre in essere tutta una serie di misure che vanno dall’istituzione di apposite commissioni sanitarie comunali, ad una maggiore pulizia dei centri abitati (in particolare gli scoli fognari), alla creazione di lazzaretti per le quarantene. Nel contempo, per motivi precauzionali, si sospendono fiere e mercati, così come ogni manifestazione civile e religiosa, cortei e processioni. Si chiamano infine a raccolta tutti i medici e i farmacisti per l’assistenza sanitaria necessaria ai malati. Alle lavandaie si ordina di allestire delle apposite lavanderie in luoghi isolati, per lavare con acqua bollente gli indumenti dei sospetti colerosi. Altri locali vengono preparati in più punti dei paesi per la disinfestazione delle persone.

Da documenti dell’Archivio di Stato di Caltanissetta sappiamo che una delle ipotesi dell’arrivo del morbo nel nisseno fu collegata al giungere in provincia di militi provenienti da Palermo, descritti con «impeti di colera». Veniva dunque sottolineato che qualora se ne incontrassero le autorità cittadine dovessero porli in stato di quarantena e, in caso di decessi, effettuare le sepolture secondo le indicazioni straordinarie emanate dalle autorità, ovvero inumazione con calce di gesso, bruciando immediatamente abiti e oggetti del deceduto.

Uno dei provvedimenti che riguardarono i paesi fu quello della pulizia giornaliera di strade e quartieri, nonché una maggiore attenzione igienica alla vendita del pesce, così come alla macellazione di animali. Proprio quest’ultimo aspetto rappresentò una delle questioni di maggiore evidenza dalle autorità sanitarie del tempo, come emerge da un documento del maggio di quell’anno, nel quale si fa divieto di macellazione nelle pubbliche vie «poiché – è sottolineato – il sangue dell’animale, una volta putrefatto, arreca, oltre a cattiva esalazione, anche grave pericolo di infestazione».

Decine furono le vittime giornaliere in tutta la provincia, tanto che si ha notizia che ad un certo punto le fosse comuni, predisposte in luoghi fuori dai centri abitati, adibiti a cimiteri, venissero lasciate aperte in attesa di altri cadaveri.

Gruppi di volontari fecero in quei mesi quanto più poterono per combattere l’epidemia, rischiando la loro stessa vita e mettendo in atto tutte le disposizioni impartite dalle autorità provinciali. Provvidero anzitutto ad invitare le cittadinanze a rispettare le disposizioni sull’igiene, con particolare attenzione all’acqua dei pozzi e allo scolo delle acque. Si organizzarono in commissioni sanitarie ed individuarono locali che servissero per il ricovero dei malati e per le quarantene dei presunti infetti; quelli che vennero chiamati “lazzaretti”. Si trattava di piccoli caseggiati di isolamento, che fungevano anche da rudimentali ospedaletti, indispensabili per le allora inesistenti strutture di salute pubblica; quantomeno per isolare gli infetti ed evitare ulteriori contagi tra le popolazioni.

I malati venivano alimentati con semplice riso in acqua, mentre per quanto riguardava le cure mediche si provvedeva a somministrare loro giornalmente dell’acqua di menta e delle piccole dosi di carbonato di calcio. Se il morbo resisteva a quelle prime cure si passava a somministrare del percloruro di ferro liquido, alternato a bagni caldi aromatici «locali o generali» per alleviare i dolori, sino all’uso della chinina e dei «verificatori ammoniaci», accompagnati da «limonee» per i convalescenti.

Per i più gravi, per farli «sfuggire alla morte», è scritto in un documento – si provvedeva ad un «leggero alimento nel primo periodo», cioè a «qualche tazza di brodo di pollo per mantenerne le forze, quando dagli infermi è tollerato». Quando poi la guarigione si manifestava finalmente con evidenza veniva somministrato del «semolino in brodo, e qualche poco di vino di ottima qualità, ed indi si passava man mano ad una alimentazione più sostanziosa».

La triste fase fu definitivamente lasciata alle spalle nel settembre, quando in una nota ai sindaci il prefetto di Caltanissetta Serpieri dava comunicazione di voler procedere ad assegnare varie onorificenze ai «benemeriti della salute pubblica» chi si erano distinti in quei mesi: amministratori locali, sacerdoti, medici, farmacisti, uomini delle forze dell’ordine, semplici cittadini.

Ma, oltre al luttuoso periodo i comuni nei mesi successivi sarebbero stati chiamati a misurarsi con impegnativi risanamenti finanziari, costretti a contrarre pesanti mutui. Parte di quelle somme sarebbero servite anche per «provviste e sussidi» per quelle famiglie che avevano perso i loro cari e adesso si trovavano in difficoltà economiche.

Si sarebbe tornati a parlare di minaccia di epidemia colerica in Sicilia nel 1885, quando un telegramma della Prefettura di Palermo allertava tutte le province siciliane circa la comparsa di sintomi in alcuni abitanti di quella città. Si consigliava quindi di porre in essere tutte le precauzioni del caso. Si trattava, fortunatamente, solo di uno scongiurato pericolo».   

 

 

 

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2 pensieri riguardo “Pandemie d’altri tempi: il Colera Morbus a Caltanissetta nel 1867. Un racconto di Filippo Falcone

  • Loredana Rosa

    Molto interessante, quello che fa la differenza di oggi con allora è la fragilità di un sistema molto più complesso. Comunque credo che come specie non sia ancora giunto il tempo dell’estinzione anche se dovremmo prendere questa pandemia come un altro dei tanti segnali d’allarme che il pianeta ci invia.

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  • Diego SCEVOLA

    Io conosco personalmente FILIPPO FALCONE DOTT in scienze politiche un signore in tutto quello che fà ,e una persona misurata , grande Filippo Augurissimi

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