Coronavirus e nuove povertà: per far fronte ai ritardi della politica necessita una silenziosa rete sociale. Riflessioni di Filippo Falcone
Riceviamo e pubblichiamo una riflessione di Filippo Falcone sull’emergenza sociale che si accompagna a quella sanitaria, causa coronavirus. Filippo Falcone è uno storico al quale si devono preziose ricerche sulle lotte operaie e contadine accadute nella nostra provincia ed ha svolto diversi incarichi istituzionali.
«Chi ha un po’ di dimestichezza con la storia sa bene che ogni grande crisi distrugge una consistente fetta di forze produttive attive in quel momento nel quadro dell’economia di un sistema. Si pensi ai drammatici risvolti della “grande depressione” americana del 1929 o a quelli più vicini a noi della crisi finanziaria del 2007-2008.
Il cammino dell’uomo è caratterizzato dal declino di sistemi economici e persino di civiltà, dal crollo dell’impero romano, a quello del sistema feudale, sino ad arrivare ai nostri giorni. Non vi è dunque progresso continuo nella storia. La civiltà è una pianta tenera che facilmente si decompone. Non vi è popolo, per colto ed elevato che sia, non vi è classe sociale per ricca e potente che sia, che possa considerarsi immune dal quadro di un possibile dissolvimento, quando catastrofi, epidemie o guerre si abbattono su di essi. Se oggi non si capisce questo, rispetto a quello che il mondo sta vivendo, non si è capito nulla. In buona sostanza se non si comprende che quando il ciclone Coronavirus sarà passato non si ripensa un mondo con meno finanza speculativa e con più centralità dell’uomo e dell’ambiente, cioè ad un’economia più umanizzata, non si andrà da nessuna parte. Ciò, anche alla luce dell’insegnamento del passato che ci indica che quando nel cammino dell’uomo piombano epidemie le società coinvolte ne vengono letteralmente travolte, spinte verso fasi transitorie di declino, ai quali devono necessariamente seguire faticose ricostruzioni. Sappiamo che carestie e guerre hanno privato nel passato grosse fette di popolazione persino degli stessi mezzi di sussistenza. L’industria e il commercio ne sono stati quasi annientati. Si è prodotto cioè la distruzione di grandi quantità di forze produttive (sia dal punto di vista del capitale che della forza-lavoro).
Nel quadro attuale la ricostruzione, che molti oggi paragonano a quella del secondo dopoguerra, sarà in realtà molto più complessa. Prima di tutto perché le dinamiche economiche della società sono oggi assai più articolate di allora e poi perché non c’è nessun “Piano Marshall” in vista; né tanto meno la Comunità europea sembra parlare un unico linguaggio. Per cui al generico slogan dell’«andrà tutto bene» – giusto richiamo all’ottimismo – va unita una sana e realistica consapevolezza che gli scenari socio-economici che ci attendono – e che a dire il vero si intravedono già – saranno assai irti.
Tutti, più o meno, amiamo il nostro Paese, tutti ci auguriamo una pronta rinascita post-Coronavirus, ma dobbiamo anche scrutare con occhi realistici il futuro prossimo (lo «stato effettuale delle cose» avrebbe detto Machiavelli), sapendo che la strada è lunga e difficile.
Bisogna certamente lavorare, in questo particolare e drammatico momento, ad un moto progressivo di impegno per far sì che il tessuto nazionale non si sfilacci (l’esempio che viene da medici, infermieri e operatori sanitari può essere un punto a cui far riferimento). Ma va anche messo in conto – a parere di chi scrive – quello che molti degli studiosi dell’Otto e del Novecento pensavano degli italiani e della loro classe politica, ovvero che allontanate le emergenze si tornasse alla mediocrità consueta. Gaetano Salvemini diceva che le istituzioni prendono gli uomini per quello che sono. Non sta ad esse offrire soluzioni ai mali di uno Stato o di una nazione. Non è colpa delle istituzioni se la maggioranza dei cittadini eleggono rappresentati di buon o cattivo livello. Concludeva lo studioso pugliese: «la botte non può che dare il vino che ha». E non sempre la classe politica italiana ha dato esempi di alta politica e senso dello Stato. Molto spesso, anzi, si è caratterizzata per deficienza di metodo, superficialità, scarso livello culturale e istituzionale, retorica. Quando in casi di eccezionale gravità si dice «nessuno sarà lasciato indietro» mi viene in mente, per fare solo un esempio, il caso dei terremotati del centro Italia, ancora oggi al freddo nei moduli abitativi provvisori o alle macerie da rimuovere dai centri storici delle comunità colpite da quei terremoti del 2016-17; altro che ricostruzione!
Ma, per venire alle vicende dei giorni nostri, il fatto concreto in questo momento è che a quasi due mesi dall’emergenza Coronavirus di fatto si procede ancora a rilento. Le famiglie povere del Paese, quelle senza alcun reddito sicuro o le piccole e medie imprese, ad oggi, nonostante gli aiuti economici siano stati già stanziati dal governo, non hanno ancora ricevuto nulla di concreto. È il vecchio italico male delle pastoie burocratiche, quando in Germania, paese colpito dalla pandemia dopo il nostro o in altre nazioni europee, i primi aiuti a famiglie e imprese sono già arrivati. Certo sarà anche il fatto che i tedeschi sono figli di una tradizione burocratica che affonda le proprie radici nell’efficienza amministrativa di stampo bismarckiano, ma lì si è decisamente più avanti.
Tutti noi conosciamo concittadini, amici, vicini di casa o anche piccole aziende che in queste settimane stanno vivendo la drammatica situazione della mancata liquidità. Di fronte a tutto ciò non si può aspettare. La primissima fase di questa emergenza, se si vuole scongiurare un possibile stato di disordine sociale, la si supera attivando immediatamente una rete solidale invisibile che arrivi dove le istituzioni in questo momento tardano ad arrivare. Una rete di aiuto di famiglie a famiglie più economicamente fragili (per quello che ovviamente ognuno è in grado di fare), in silenzio, senza clamore, in maniera assolutamente riservata, sfatando il giudizio dei molti – compreso di chi scrive – sulla scarsa fiducia nei confronti del popolo italiano e, soprattutto, sfatando quello che un grande pensatore come Napoleone Colajanni diceva essere l’ottavo peccato capitale dell’Italia: la retorica. Per le bandiere, gl’inni nazionali, le canzoni nei balconi e gli slogan ci sarà tempo».