19 Aprile 2024
L'opinione

Il Festival di Sanremo e la violenza di genere: l’opinione dell’antropologa Melina Pignato

Quest’anno il Festival di Sanremo si svolge all’insegna di un’emergenza importante per l’Italia, la violenza di genere. Possiamo, però, dire che, fino ad oggi, il tema sia stato affrontato nella giusta maniera o qualche perplessità ci è consentita? Il palcoscenico dell’Ariston ha ospitato il drammatico monologo di Rula Jebreal ma anche il trapper Junior Kally, accusato da più parti di sessismo e di incitamento al femminicidio. Per non parlare infine delle polemiche animate dal “passo indietro” di Amadeus, nei giorni scorsi.

Che Sanremo non sia solo canzonette ma un termometro per misurare il clima dei tempi ci può stare, ma la settantesima edizione del Festival è un calderone che comprende tutto o il polverone sollevato è comunque utile a puntare i riflettori su fenomeni che, in Italia, e nella nostra provincia, visto il tragico, recente episodio di Mussomeli, già da tempo hanno assunto risvolti drammatici? Sull’argomento ospitiamo l’opinione dell’antropologa Melina Pignato:

 

«L’errore è aspettarsi discorsi realmente incisivi e innovativi a Sanremo. Sanremo è luogo di paradigmi obsoleti, è intrinsecamente conservatore perché fa archeologia anche quando “innova”: Achille Lauro “rifà” David Bowie glam e gender fluid mezzo secolo dopo, Rula Jebreal ripete parole già dette negli anni Settanta e ripetute fino allo stremo. Sanremo è un Barnum che da un lato celebra il suo passato offrendo prodotti dichiaratamente vintage a un pubblico che lo è altrettanto, dall’altro simula la rappresentazione del presente attraverso preconfezionamenti ideologici mainstream, provocazioni che non sono tali, conformismi mascherati da trasgressioni, denunce che non centrano il bersaglio. E’ un contenitore che mette a posto le coscienze per un’oretta e assorbe, con la quantità e varietà delle merci offerte, le sue stesse contraddizioni, un buco nero che inghiotte tutto e al cui interno una giornalista che racconta una terribile esperienza personale e fa una tirata “femminista” convive tranquillamente con altre donne che sono lì perché sono molto belle o perché sono legate a un uomo molto famoso: un supermercato in cui polli e bistecche stanno a pochi metri dagli alimenti per vegani.

A proposito di contraddizioni, il monologo “femminista” di Jebreal ha preceduto di pochissimo la giornata dedicata alla denuncia delle mutilazioni genitali femminili. Nel monologo (e in tutto Sanremo) non c’è traccia di un costume che, assieme al femminicidio, rappresenta quanto di più definitivamente violento e permanentemente lesivo possa subire una donna… Tema scomodo e sgradevole… meglio una storia personale strappalacrime (attenzione: nessuna ironia) che può essere più facilmente narrata e ascoltata, più rapidamente metabolizzata e rimossa. Perché non dice nulla che non si sappia già, e lo dice in un linguaggio addomesticato.

Sempre a proposito di contraddizioni, i giorni del Festival denso di presenze femminili sono anche quelli in cui viene bocciato il sostegno a un’istituzione fondamentale come la Casa delle Donne di Roma, punto di riferimento per decenni, luogo di aiuto e riparo… pratica già liquidata con strutture analoghe ma, semplicemente, meno note. Se le lacrime di Jebreal erano indubbiamente vere, la commozione di tanti e tante che l’hanno ascoltata era alquanto pelosa, destinata a durare poco più del monologo, a sparire senza lasciare pesanti scorie nell’anima.

Normale, del resto, la cifra di Sanremo non è la Tragedia, è il Burlesque. In tale omologante calderone pure le parole più selvagge verrebbero addomesticate, ancora di più quelle che selvagge non sono.

Dice Jebreal: “Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo”. Questo passo a me fa venire i brividi, non perché mi commuova (neanche un po’) ma perché mi disturba. Parole come “carrieriste”, “madonne”, “puttane” continuano a veicolare categorie maschili e pensieri maschilisti: l’equivalente maschile di madonna e puttana non esiste, e perché una donna sia definita “carrierista” basta semplicemente che anteponga le sue ambizioni e aspirazioni a quello che gli altri si aspettano da lei. “Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere” è paternalistico. Le donne non devono chiedere, devono esigere. Soprattutto, non devono chiedere agli uomini ma alle istituzioni, come cittadine, come persone. Sanremo non è e non sarà mai un luogo per reali rivendicazioni. E ancora più impalpabili suonano i discorsi “femministi” fra i lustrini di Sanremo mentre le bambine vengono mutilate e le Case delle Donne smantellate».

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