Il deficit nei conti della Regione Sicilia (quanto è grande, chi lo ha causato, chi lo difende) di Angelo Emanuele Parisi
Riceviamo e pubblichiamo da Angelo Emanuele Parisi:
I conti non tornano
Nel 2018 il disavanzo nei conti della Regione Sicilia, cioè la differenza fra le entrate e le uscite, è stato rivisto ed aumentato di 1,3 miliardi. Questa parte di disavanzo verrà spalmata in tre anni: 223 milioni nel 2019, 578 milioni nel 2020, 560 milioni nel 2021. Poca roba se si considera il fatto che il disavanzo complessivo, che nel frattempo è stato anche rivisto, corretto e aumentato dalla Corte dei Conti di ulteriori 400 milioni, ammonta per adesso in totale a 13,65 miliardi di oneri complessivi che le generazioni future, incolpevoli si ritroveranno sulle loro spalle e che dovranno pagare, se tutto va bene, fino al 2048. Il governatore della Regione Sicilia, Nello Musumeci e il suo fidato vicepresidente e assessore all’economia Gaetano Armao, sostengono a loro difesa che questo debito è una pesante eredità del passato. Trent’anni di cattiva gestione dei conti della Regione hanno portato a tanto. In più, secondo l’assessore Armao non era mai stata fatta prima di adesso la pulizia dal bilancio di alcune voci. Forse anche per questo la presentazione del bilancio è stata parecchio e inusualmente tardiva. Ma non è detta ancora l’ultima parola perché questo disavanzo potrebbe essere ulteriormente aggravato – o alleggerito – dalla Corte dei Conti. Nel balletto dei conteggi, delle correzioni, di nuovi conteggi ed ulteriori correzioni, rimane l’enormità del debito che euro più euro meno, ammonta dunque a 13,65 miliardi.
La spesa pubblica
Da pochi giorni è uscita una relazione dell’Ufficio Studi della Confcommercio. Dalla nota di spesa pubblica locale emerge che la Sicilia, insieme ad altre tre regioni a statuto speciale, Val D’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, è tra le prime sette insieme alla Calabria e al Molise – a statuto ordinario – ad avere il dato più rilevante. Sono stati presi in esame 25 indicatori. Da questa analisi ne deriva che le regioni a statuto ordinario spendono tanto ma producono tanto. Quelle a statuto speciale spendono circa il 37% in più a fronte di servizi che confrontati con quelli delle regioni a statuto ordinario risultano inadeguati. La Regione Lombardia ha una spesa pro capite di 2.528 euro a fronte di una popolazione di 10,02 milioni (dato ISTAT 2017) ed è la penultima in graduatoria, cioè tra quelle regioni che spendono meno ma che in proporzione registrano i servizi migliori. Prendiamo ad esempio la spesa sanitaria: in Sicilia equivale a 127 milioni, in Emilia Romagna a 112 milioni ma la qualità è totalmente differente. E potremmo continuare a trovare sproporzioni notevoli, nel rapporto tra spese e qualità dei servizi, con molte altre regioni d’Italia anche fra quelle più grandi, dove per grande s’intende un territorio con popolazione residente maggiore circa di 5 milioni di abitanti. Per la Sicilia il dato è impietoso: 3.709 euro pro capite di spesa, a fronte di una popolazione di 5,057 milioni (dato ISTAT 2017). Troppo per una regione considerata piccola. Prendendo in esame un altro indice, cioè il residuo fiscale – che è la differenza tra quanto i privati cittadini e le imprese versano e quanto ricevono in servizi e trasferimenti – vediamo che il primo posto è occupato dalla Lombardia con un saldo positivo di 54 miliardi, mentre tra le ultime regioni troviamo la Sicilia – per la verità adesso non più ultima fra gli ultimi perché seguita da Sardegna, Calabria e Basilicata – con un saldo negativo di 1 miliardo. Dobbiamo ammettere che la Lombardia o l’Emilia Romagna, regioni a statuto ordinario, siano state meglio amministrate della Sicilia, regione a statuto autonomo. Possiamo anche dire, senza timore di essere smentiti perché i dati lo confermano che il problema non sia tanto la forma dello statuto di ogni singola regione quanto la pianificazione e la gestione politica delle risorse che garantiscono servizi buoni a fronte di spese accettabili. Dai dati si evince che le regioni a statuto speciale incrementano fortemente la spesa al di là della qualità dei servizi resi alla comunità dei cittadini. Altro fattore, senz’altro determinante, è l’atavica sperequazione economica fra il Sud e il Nord del paese. Alle colpe degli amministratori meridionali si sommano quelle dei governi centrali che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi che, versando fiumi di denaro, non hanno mai potuto o voluto esercitare controlli e non hanno mai preteso risultati utili né il raggiungimento degli obiettivi.
Gli sprechi
L’eredità del passato è indubbiamente pesante. Decenni di sprechi di denaro pubblico dovuti a cattiva gestione, a finanziamenti di progetti camuffati da attività culturali ed eventi creati per mungere la vacca il più possibile, al sostentamento di tutta una serie infinita di enti, entini ed entucoli, tanto inutili quanto improduttivi e in cui lavoravano amici e parenti. Per non parlare poi della formazione in cui tutti i partiti – da destra a sinistra – hanno attinto in maniera indiscriminata, facile e sicura. Qualcuno si ricorderà dell’epopea dei corsi di formazione professionale. In teoria sarebbero dovuti servire per creare professionalità e favorire l’inserimento in un tessuto produttivo inesistente. Nella pratica sono serviti per fidelizzare clientela elettorale – nella migliore delle ipotesi – o per effettuare vere e proprie truffe attraverso enti di formazione fantasma che non avevano neanche aule e banchi. A proposito. La formazione in Sicilia è costata – in circa dieci anni – una cifra come 4 miliardi di euro. Fino al gennaio 2017, quando è salito agli onori della cronaca giudiziaria “il sistema Genovese”, ex deputato PD e poi Forza Italia che aveva fatto della formazione una macchina per fare soldi. Nessun politico ha avuto il coraggio (elettorale) di puntare il dito verso un tale immane ed ingiustificato spreco di denaro pubblico. C’è voluta, come al solito, la magistratura ad inchiodare gli amministratori alle loro responsabilità penali. Chiarire quali siano state le responsabilità politiche del dissesto non è mai stata una cosa all’ordine del giorno nel dibattito politico all’interno dei partiti siciliani. Nessuno fa ammenda né a destra né a sinistra. È di pochi giorni la condanna di Genovese anche in appello per associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, frode fiscale e truffa. Un gran bel curriculum da presentare magari alle future elezioni. Un altro immane buco nero nei conti della Regione Sicilia è quello della sanità siciliana che si attesta a 150 milioni di euro, anche in questo caso euro più euro meno. I sindacati – come dare loro torto – hanno accusato le passate “gestioni manageriali” anche “di avere pagato i premi di produttività a direttori generali, sanitari e amministrativi per il raggiungimento degli obiettivi”. Obiettivi di deficit e di dissesto naturalmente. In buona sostanza c’è stato e in parte continua ad esserci una sottrazione disinvolta e istituzionalizzata di denaro pubblico e nella migliore delle ipotesi una cattiva gestione della politica, non solo e soprattutto a fini personali ma anche per incapacità ad amministrare il bene publico.
Le spese pazze
C’è poi lo scandalo delle spese pazze che nel 2014 vide coinvolti ottanta parlamentari regionali. Per alcuni ad oggi è stata chiesta una condanna per avere sottratto soldi che erano stati assegnati per l’attività costituzionale dei gruppi e che invece i parlamentari avrebbero utilizzato per l’acquisto di cravatte, carrè di seta, pernottamenti in hotel, affitto di sale convegni, spese alla bouvette della regione, contributi a deputati regionali e collaboratori dei loro gruppi parlamentari. Per questo la Corte dei Conti ha chiesto una condanna per danno erariale. Parliamo di circa 214 mila euro (la somma acclarata) poca roba se paragonata all’enorme voragine del buco contabile della regione ma abbastanza per generare nei cittadini indignazione, rabbia e sfiducia nelle istituzioni della Regione Sicilia. Tra i parlamentari che avrebbero distratto denaro – la sentenza è prevista a novembre – c’è anche Salvo Poiese, attuale sindaco di Catania, città regina d’Italia del dissesto finanziario con 1,6 miliardi di buco certificato dalla Corte dei Conti. Non è colpa delle persone per bene se poi nascono nell’immaginario collettivo luoghi comuni come: “Tutti i politici sono ladri”. Non sono tutti ladri ma una buona parte. La parte che rimane si divide tra molti incompetenti (visti i risultati) e pochi preparati (in concreto ininfluenti). Non a caso la spesa pubblica siciliana è stata ed è la più costosa d’Europa, a fronte di una sequela di disservizi e carenze strutturali e gestionali: nella sanità, nella scuola, nella cultura, nei trasporti, nell’ambiente. L’effetto è mostruoso e preoccupante. Non c’è che dire.
La criminalità mafiosa
La Sicilia è anche terra di mafia (anche se “non tutti i siciliani sono mafiosi, non tutti i mafiosi sono siciliani”). La criminalità mafiosa si è trasformata, si è modernizzata, digitalizzata perfino per nuovi guadagni. Una volta c’era la mafia che tentava di infiltrarsi nella vita pubblica, nella politica e negli affari. Oggi siamo nella fase evoluta. Un tempo si chiamava Trinacria per la sua forma triangolare e perfetta, adesso i lati del triangolo sono altri: politica, mafia, istituzioni. Ognuno di questi lati ha poi le sue appendici che s’intrecciano e si avvinghiano fra loro. La mafia è presente nella vita pubblica, nella politica e gestisce i suoi affari con mentalità imprenditoriale. Intendiamoci. Non tutta la politica e l’imprenditoria fa parte di questo triangolo. Quello che però ha contribuito corposamente a portare la Sicilia in questo stato di fatto e non solo per quanto riguarda l’attuale deriva economica, sono state la politica e l’imprenditoria che contano, legate da un patto di sangue con la mafia e che hanno avuto ed hanno potere decisionale, di gestione e di controllo sul territorio e sull’economia. Dicevamo che la mafia si è evoluta. Parliamo degli appalti pubblici e di come la criminalità mafiosa riesca ad attingere denaro da questa fonte inesauribile di approvvigionamento. Appalti finalizzati spesso per forniture di servizi minimali e mal gestiti a fronte di contratti con importi sproporzionati. Lavori destinati a realizzare ciclopiche strutture inutili, che non saranno mai ultimate né utilizzate, pensati volutamente per questa o quell’altra impresa, gonfiati a regola per riuscire ad oleare tutti i meccanismi necessari alla riuscita del malaffare. Se poi tutto questo denaro non dovesse essere sufficiente allora si ricorre alle varianti in corso d’opera, con la complicità del funzionario pubblico di turno che avalla la procedura di richiesta, per succhiare ancora altro denaro e sottraendo alla comunità umiliata forze ed energie finanziarie residue. La mafia che oggi gestisce gli affari e le imprese è manageriale. I capi delle cosche sono affiancati da professionisti al soldo della criminalità organizzata o più di frequente ad essa contigui attraverso collaborazioni professionali borderline: avvocati, ingegneri, architetti, commercialisti che concorrono fattivamente alla gestione del denaro riciclato in attività lecite e costantemente corroborato dai proventi derivanti dalle attività illecite più tradizionali, amministrato dopo essere stato ripulito ed ulteriormente incrementato, reinvestito nuovamente in altre attività lecite e no. Un gigantesco flusso di ricchezza di cui una buona parte deriva dallo sversamento di denaro pubblico nelle casse della mafia. Denaro sottratto alla comunità con il denaro della comunità. In pratica un regolare autolavaggio di denaro che entrando da due bacini differenti, viene accumulato, miscelato e ripulito e successivamente reimmesso in circolo per finanziare ulteriormente altre attività illecite e altre solo apparentemente lecite. È difficile stimare quantitativamente quanto denaro pubblico le organizzazioni mafiose abbiano sottratto direttamente o indirettamente dalle casse della Regione Sicilia. Non quantificabile ma immaginabile se si pensa che è stato calcolato che gli utili della mafia sono pari a circa 150 miliardi, col beneficio dell’inventario. E il danno economico è meno rilevante del danno sociale. Al di là della retorica istituzionale relativa ai padri dell’Autonomia Siciliana, la verità storica è molto diversa e per noi siciliani anche desolante e amara. In breve. I padri fondatori si trovarono in parte costretti a mediare tra le istanze separatiste propugnate dai latifondisti terrieri e dalla mafia locale e quelle inevitabili dell’unità nazionale. Nel 1943, quando gli americani arrivarono in Sicilia, si trovarono da un lato di fronte i capi mafia che chiedevano l’indipendenza e che erano già pronti a prendere il potere, dall’altro gli antifascisti che non avrebbero garantito un fronte adeguatamente sicuro all’avanzata del “pericolo comunista”. Gli americani dovendo scegliere, decisero di consegnare il potere delle amministrazioni locali nelle mani dei capi mafia. Dalle conseguenze di questi due momenti storici è nata l’autonomia siciliana.
La riscossione dei tributi non pagati
Nelle casse della Regione Sicilia già nel 2017, quando era governatore Rosario Crocetta, mancavano circa 52 miliardi di tributi non riscossi in almeno 10 anni, buona parte dei quali già da allora prescritti. Tasse non pagate relative al bollo auto, Irap e addizionale Irpef, concessioni governative. Nessuno è mai riuscito a fare pagare i debitori forse anche perché ai politici ha fatto comodo che Riscossione Sicilia mantenesse una sorta di pax fiscale nei confronti dei contribuenti. Non parliamo dei ceti più deboli – a cui ovviamente a volte è anche giusto non far pagare quello che non possono – ma di quelli che più dovevano perché più avevano avuto o più avevano tolto alla comunità. In una regione come la Sicilia non è dunque paradossale e grottesco che l’assessore all’economia Gaetano Armao – si, proprio quello che ha legittimato il rosso sangue dei conti – dovrebbe a Riscossione Sicilia circa 392 mila euro per il mancato pagamento di 22 cartelle esattoriali. Roba da fare sembrare ordinaria amministrazione perfino le opere teatrali più incredibili di Luigi Pirandello che la Sicilia la conosceva bene e che delle situazioni paradossali e grottesche ne era un profondo conoscitore.
I costi del Parlamento Siciliano
Ma quanto mi costi? Recitava una volta un tormentone pubblicitario. Tanto, se parliamo del Parlamento Siciliano. Lasciando perdere i numeri che si incolonnano in vertiginose e vortiginose sommatorie, arriviamo ad un dato certo: tra costo del personale e dei parlamentari siamo a 1.000 euro al minuto. Cifra che di per sé potrebbe non volere dire niente. Se però aggiungiamo altri due dati noti, cioè i giorni medi mensili di seduta che sono 7,5 e un costo complessivo di 15 milioni l’anno, ci rendiamo subito conto che perfino il costo di gestione la Casa Bianca americana è paragonabile a quello di un tranquillo e ben pulito B&B in riva al mare se paragonato a quello dell’ARS. Il costo complessivo comprende tutta una serie di privilegi di rimborsi, agevolazioni e contributi che si sommano agli stipendi e alle pensioni d’oro dei parlamentari della Regione Sicilia. Per chiudere il cerchio, all’Ars si lavora poco e si guadagna troppo. Anche questo è un dato certo. Se i parlamentari nazionali sono stati definiti come “casta” quelli della Regione Sicilia potrebbero essere definiti non a caso “intoccabili”.
Conclusioni
L’Autonomia della Regione Sicilia ha peggiorato questo stato di cose, aggravandolo. L’autonomia con cui avremmo voluto, potuto e dovuto fare sfaceli ci ha invece ridotti sul lastrico. Penso dunque che il modello di autonomia di cui tanto si straparla, dovrebbe essere uguale e condiviso per tutte e da tutte le regioni. Senza eccezioni, senza privilegi, con la trasparenza e la solidarietà che le istituzioni dovrebbero garantire costituzionalmente a tutti i cittadini di una stessa nazione. Noi siciliani ci siamo ubriacati della nostra libertà. Ci siamo fatti irretire da una sirena ammaliatrice, un potere non troppo esterno che ci tocca perché ci appartiene e che fa parte dell’altra metà di noi stessi. Il canto della sirena è stato l’assistenzialismo e il potere non troppo esterno è stato alimentato come un cancro dal voto elettorale, quello indifferente e quello interessato. Ci colpisce solo quando siamo colpiti. Tutto ciò in attesa del default definitivo, quando l’iceberg colpirà il Titanic e lo farà affondare in poco tempo ben sapendo che le scialuppe di salvataggio non basteranno per tutti.