27 Luglio 2024
L'opinione

La Repubblica e le donne: quanta strada ancora da fare! Riflessioni di Sonia Zaccaria

Sonia Zaccaria

La Repubblica e le donne, i traguardi raggiunti in materia di pari opportunità e la strada ancora da fare. Riceviamo e pubblichiamo le considerazioni di Sonia Zaccaria, docente di Filosofia e Storia e presidente del Comitato scientifico della rivista “Studi storici siciliani”:

«Una delle ultime occasioni per bilanciare la condizione politica tra uomo e donna nell’elettorato passivo (ovvero nella condizione di essere eletta) sarebbe stata quella di approvare le modifiche all’articolo 55 della costituzione proposta dal governo Renzi, votata favorevolmente in doppia lettura dal parlamento nazionale e oggetto (assieme ad altre modifiche costituzionali) del referendum confermativo del 4 dicembre 2016. La modifica diceva:

L’articolo 55 della costituzione è sostituito dal seguente: Art. 55- Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”. Si trattava quindi di una norma di principio cui avrebbero dovuto attenersi le leggi dello stato per le elezioni dei parlamentari.

Come tutti ben sapete questa norma non è stata approvata e siamo rimasti quindi nella discrezionalità del parlamento in materia, che può o non può operare in questa direzione perché non c’è il principio costituzionale che l’imponga. Sta di fatto che malgrado i progressi nella partecipazione delle donne alle rappresentanze parlamentari (nella legislatura passata erano circa il 31 % rispetto al 22% di quella precedente) la nostra democrazia si avvale di una percentuale molto contenuta di donne, rispetto a quella di tantissime altre democrazie. L’analisi annuale del World Economic Forum sul Global Gender Gap nel 2015 sulla partecipazione delle donne alla vita istituzionale e politica del paese, colloca l’Italia al 41° posto su 145 stati esaminati a livello internazionale.

Il no quindi alla riforma costituzionale è stato una battuta d’arresto nel lungo processo storico che ha portato la donna a diventare cittadina di questa nazione al pari del genere maschile, e che è iniziato con un’altra norma inserita nella costituzione repubblicana approvata dall’Assemblea Costituente nel 1946, e che recitava testualmente all’art. 3:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese”.

L’inserimento della dicitura “senza distinzione di sesso” era avvenuto per la determinazione delle 21 deputate donne entrate a far parte del gruppo dei 75 costituenti incaricati di redigere materialmente l’articolato della costituzione.

A dire il vero già un decreto legislativo del 31 gennaio 1945 (non ancora norma costituzionale) emanato dal Governo presieduto da Ivanoe Bonomi aveva allargato il suffragio elettorale sia attivo che passivo alle donne, rendendo paritario un diritto-dovere che era stato negato nelle riforme elettorali del 1912 (elezioni del 1913) e del 1918 (elezioni del 1919). In quelle leggi emanate da un parlamento a maggioranza liberale, composto da una camera elettiva e da un senato di nomina regia, infatti era stato approvato il suffragio elettorale universale maschile sebbene in due sistemi elettorali diversi: a collegio uninominale nel 1912 e a scrutinio di lista nel 1918, e in forma limitata ai trentenni nel 1912 e ai maggiorenni, compreso i diciottenni che avevano partecipato alla grande guerra, nel 1918.

Con le leggi fascistissime e con la trasformazione della camera dei deputati in camera corporativa espressione di categorie sociali e non di partiti, da cui già nel 1926 erano stati dichiarati decaduti i rappresentanti delle opposizioni, la democrazia venne completamente soppressa non solo a livello statale ma anche a livello locale. I podestà di nomina governativa, sostituirono i sindaci e i consigli comunali liberamente eletti ed i presidi (con un consiglio di rettori) sempre di nomina governativa sostituirono i presidenti di provincia ed i consigli provinciali.

La prima elezione cui poterono partecipare le donne nell’immediato secondo dopoguerra furono le elezioni amministrative del marzo 1946 che in Sicilia si tennero nella terza decade di quel mese, e in quella occasione non solo fu alta la percentuale di donne che affluì alle urne, ma anche quella che venne eletta nei consigli comunali.

Stessa cosa accadde per l’elettorato attivo il 2 giugno del 1946 nella elezione dell’Assemblea Costituente, che però non ebbe alcuna ricaduta sull’elettorato passivo. Venne eletto infatti un esiguo numero complessivo di donne, soltanto 21 su 556 componenti, e di esse soltanto una siciliana: la calatina Ottavia Penna Buscemi eletta nel “Fronte dell’Uomo Qualunque”. La Penna era una monarchica che vantava origini nobiliari e  fu la prima donna che venne presentata per la elezione del Capo Provvisorio dello stato nel giugno del 1946, sebbene fosse stata una candidatura di bandiera che ottenne soltanto i 32 voti del suo partito. Come tutti sappiamo il primo Capo dello stato (non ancora presidente della repubblica) fu Enrico De Nicola, liberal democratico, già presidente della camera dei deputati prima e durante il periodo fascista fino alle elezioni del 1924 in cui si affermò con violenze e brogli il listone Fascista.

Di fatto l’appropriazione del diritto di voto delle donne non venne digerito da parte del mondo politico e da parte dell’altro genere che lo rappresentava quasi integralmente, ed anche le elezioni del nuovo parlamento siciliano del 20 aprile 1947 non diede risultati eccellenti. Soltanto tre donne furono elette nell’Assemblea Regionale Siciliana: una nelle file del Blocco del Popolo (PCI e PSI) nel collegio di Catania Gina Mare in Poni (casalinga con la licenza elementare) e le altre due nelle fila della Democrazia Cristiana  (Ines Giganti in Curella) di Licata Provincia di Agrigento di cui diventerà Sindaca negli anni ‘50  (Laureata in filologia Classica) e     Paola Tocco in Verducci nel collegio di Palermo che fu anche la prima donna assessore supplente al lavoro, alla previdenza, all’assistenza sociale  e sanità. Era laureata in farmacia.

Il fatto stesso che il cognome delle donne candidate fosse accompagnato dal cognome del marito la dice lunga sulla condizione di subalternità anche formale in cui esse si trovavano.

Nel collegio di Caltanissetta, nelle elezioni regionali del 1947, vi fu soltanto una candidata tra le fila della Democrazia Cristiana Giannì Vitello Lucrezia ma giunse ultima tra i candidati del suo Partito. E questo ci fa riflettere abbondantemente sulle difficoltà incontrate dalle donne nell’affermazione di un nuovo ruolo sociale che le avesse viste protagoniste, in un’area geografica (la Sicilia) ma più generalmente il meridione d’Italia dove la resistenza al nazi fascismo e alla Repubblica Sociale Italiana, era stata completamente assente.

Un ruolo straordinario durante la resistenza e nell’immediato dopoguerra ebbe infatti l’Unione delle donne in Italia, cioè l’organizzazione di gruppi femminili e delle donne antifasciste che ebbe i suoi prodromi nei “Gruppi di difesa delle donne”, che parteciparono attivamente alla resistenza anche con un proprio organo di stampa dal titolo “Noi donne”. Erano gruppi aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa, che volessero partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione”. Queste donne che operarono come staffette, come vivandiere, come informatrici ebbero anche un ruolo militante di combattimento simile all’altro genere di non indifferente portata.

Nell’UDI militarono, in seguito, diverse donne siciliane e nissene, ma quella che è entrata nell’immaginario collettivo della città per la sua caparbietà e la sua risolutezza, nonché per la sua presenza politico istituzionale (all’ARS e nel consiglio comunale di Caltanissetta) fu Letizia Colajanni. Di lei è rimasto vivo un ricordo anche nel mondo della scuola per l’iniziativa nissena di “Lettere a Letizia” che l’hanno fatta diventare un punto di riferimento notevole per tutte le donne e per la cultura della città. In lei si sono riscontrate tutte quelle qualità che hanno sviluppato nel nostro territorio gli obiettivi dell’emancipazione della donna e gli elementi basilari per la sua liberazione. E senza togliere niente ad altre donne, cattoliche, socialiste, comuniste e di altri partiti politici che hanno popolato il mondo delle istituzioni mi viene da dire che la vita di Letizia è ancora di esempio per il suo genere   e degna di emulazione.

Io penso però che la strada sia ancora in salita e che ogni obiettivo raggiunto diventi la base per uno successivo. Oggi si sente parlare con sempre più frequenza di femminicidio, di stalking, di violenza familiare; si sente parlare ancora di subordinazione del genere femminile nel campo del lavoro, di ricatto per la maternità, di contrazione dei servizi sociali. E questo ci fa riflettere e ci impone di lottare e di non demordere.    Ecco perché in questa occasione mi sento  di appartenere più che mai  alla grande famiglia del nostro genere, dell’altra metà del cielo come sovente ci definiscono,  non solo per essere donna ma anche  per essere donna che studia ed insegna la storia:  quella storia non solo da manuale, ma principalmente la storia di genere, al femminile, già scritta con la sofferenza di tante di noi o  che deve essere ancora scritta attraverso il nostro impegno attuale e futuro. Ecco perché, in quanto storica, voglio rivolgere un pensiero alla più giovane componente della Assemblea Costituente italiana del 1946: alla partigiana Teresa Mattei, laureata in filosofia come me, che propose la mimosa come fiore della Festa della donna. Voglio rivolgere un pensiero a lei che in un clima di violenza e di guerra civile ha collaborato all’uccisione di Giovanni Gentile filosofo anch’egli ed eminente uomo di cultura  italiano benché fascista,  affinché  la sua travagliata  esistenza (un fratello era morto suicida nelle carceri naziste  di via Tasso a Roma)  e le sue contraddizioni umane e politiche  possano  servire  da esempio a tutti i giovani di qualsiasi genere, e di qualsiasi orientamento sessuale essi siano,  a ripudiare un mondo di odio  e di violenza in modo tale che  la ragione ed il rispetto reciproco possano contribuire a rafforzare la democrazia e ad evitare la sopraffazione in qualsiasi forma essa venga esercitata».

 

 

 

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