Mafia ed economia legate dal profitto: Fiorella Falci racconta la sua tesi di laurea sul caso Montante
Una laurea magistrale in Sociologia e Ricerca sociale è il nuovo traguardo di Fiorella Falci, che ha discusso una tesi su “Mafia ed economia. Il caso Montante”, relatore il docente di Sociologia della devianza Arije Antinori.
Realizzata in otto mesi, la tesi è molto approfondita e ha un impianto scientifico solido costituito da una settantina di volumi e da una sitografia basata su quotidiani, riviste e materiale curato da importanti centri di documentazione. Quattro capitoli, completi di introduzione e conclusioni, che conducono il lettore al caso Montante attraverso un’analisi della mafia dalle origini ai giorni nostri. Sperando che la tesi venga pubblicata e sia così a disposizione di chiunque voglia leggerla, abbiamo intervistato la professoressa Falci per far emergere, dal suo lavoro, le caratteristiche del sistema svelato dall’operazione Double face. Le abbiamo prima chiesto un’impressione sull’incontro con il giornalista Enzo Basso, che si è tenuto ieri nella Sala Gialla del Comune di Caltanissetta.
Come ti è sembrato l’incontro di ieri?
«Un incontro di estremo interesse, con un giornalista coraggioso, Enzo Basso, che ha pagato la libertà di informazione con la chiusura del suo settimanale, il “Centonove” che aveva scoperchiato parecchie pentole del potere in Sicilia, e che al “sistema Montante” ha dedicato due libri-inchiesta di implacabile chiarezza, e con un presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, l’ex senatore Nicola Morra, che ha visto bocciata la sua relazione finale sul caso Montante da un blocco politico trasversale di incommentabile compattezza.
Un esempio di giornalismo di inchiesta ed un’esperienza deludente di insufficienza della politica, incapace di farsi carico di un’analisi autentica delle trasformazioni dei sistemi mafiosi e soprattutto della loro capacità di intrecciarsi con i poteri istituzionali, esempi offerti alla “città ferita” (così l’ha definita il sindaco Gambino nel suo saluto) che il sistema Montante aveva illuso di essere la “capitale della legalità” e che sembra avere rimosso la memoria di quanto è avvenuto, amnesia anche della propria compiacenza e disponibilità a seguire acriticamente i carri dei vincitori».
Qual è la tesi di fondo che sviluppi in merito al rapporto tra mafia ed economia?
«Mafia ed economia sono strutturalmente legate dalla finalità che per entrambe è il profitto, nel caso della mafia definito come “illecito arricchimento”, e dalla conseguente conquista di posizioni di potere che al dominio economico sono collegate. La mafia come fenomeno delle classi dirigenti (già individuata con queste caratteristiche dall’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1876), è stata analizzata negli ultimi decenni superando lo stereotipo della mafia come frutto del sottosviluppo e della povertà o come assenza dello Stato, per evidenziarne invece la capacità di seguire e a volte anticipare le trasformazioni dei contesti in cui opera per gestirle secondo le proprie dinamiche di dominio violento e di costruzione di privilegi e monopoli esclusivi nell’esercizio di molte attività.
Del resto, l’intreccio mafia ed economia ai massimi livelli è inequivocabile in Sicilia sin dal 1893, con il delitto Notarbartolo, il direttore del Banco di Sicilia ucciso dalla mafia su mandato di un deputato governativo, mentre stava facendo emergere i torbidi intrecci politico-mafiosi che avevano investito la gestione del Banco, in collegamento con lo scandalo nazionale della Banca Romana.
Le teorie degli economisti e criminologi anglosassoni, a partire dalla metà del XX secolo (Sutherland innanzitutto) hanno descritto le caratteristiche di questa “criminalità dei colletti bianchi”, che sono puntualmente riscontrabili nella mafia siciliana nel suo insediamento nel tessuto economico e socio-politico dell’ultimo secolo, così come confermato del resto dalle analisi in materia della sociologia italiana (Arlacchi, dalla Chiesa, Santino, etc). La mafia come Giano bifronte: criminalità organizzata e insieme fenomenologia del potere».
Quali sono le caratteristiche del cosiddetto “sistema Montante”, che sviluppi nell’ultimo capitolo?
«È stato un sistema di occupazione del territorio, della sua economia, della società civile, da parte di una rete di dominio che faceva riferimento al capo dei capi degli imprenditori della legalità con una solida struttura di intelligence e di protezione che penetrava fin nel cuore dello Stato, nelle sue istituzioni, nelle sue forze armate e nei suoi servizi di sicurezza. Un sistema pervasivo di controllo sociale, economico, che si è servito degli strumenti della politica e delle istituzioni, per imporre gli interessi di un gruppo di potere che si è aggregato utilizzando l’archetipo della “legalità”, divenuto discriminante dopo la stagione violenta delle stragi mafiose del 1992, per accreditarsi come nuova, coraggiosa, classe dirigente imprenditoriale, pronta a spazzare via i vecchi interessi e i torbidi legami che intrecciavano violenza mafiosa e poteri socio-politici tradizionali e costruire un futuro in cui legalità e sviluppo fossero alla base dell’economia e della vita sociale e politica.
Leonardo Sciascia l’avrebbe definita una colossale impostura, tipica dei sottotesti del potere siciliano nella storia, che si è servita degli strumenti istituzionali della Sicilia “a Statuto speciale” per occupare la Regione, le sue istituzioni economiche, le Camere di Commercio, banche, giornali, e utilizzarli in funzione dei propri progetti affaristici e speculativi (l’esempio della gestione dei rifiuti è paradigmatico in questo senso).
L’informazione, i mass media, hanno svolto una funzione strategica nell’accreditare e diffondere il “carisma” dei nuovi paladini della legalità e non a caso hanno goduto di grande attenzione da parte del “sistema” Montante».
Gli intellettuali agiscono in modo diverso dagli inquirenti. Mi riferisco, ad esempio, al Pasolini dell’”io so ma non ho le prove”. Perché aspettare che questo sistema diventasse una vicenda giudiziaria per occuparsene e perché non cogliere invece segnali che avrebbero dovuto spingere a scrivere una riga? Perché lo si fa solo ora?
«Oggi si scrive la cronaca giudiziaria rispetto ai processi in corso, ma non vedo molti approfondimenti nella lettura del contesto in cui il “sistema” si era sviluppato e radicato, coinvolgendo interi settori della società e del mondo delle imprese e delle professioni.
Da tempo ormai la Sicilia non genera intellettuali, capaci di leggere criticamente la società, capaci di prendere posizione, interpretare i conflitti, espliciti o sommersi, indicare una direzione, un percorso, un’idea di rinnovamento autentico. Altrettanto si può dire, purtroppo, dei soggetti politici, partiti, sindacati, senza radici nella società, incapaci di rappresentanza reale degli interessi e dei diritti delle classi sociali e delle persone meno garantite. Tutt’al più sono macchine elettorali, al servizio dei notabili locali, che hanno reinterpretato il leaderismo nella storica chiave clientelare e trasformistica, ormai totalmente autoreferenziale.
La maggioranza della popolazione non va più a votare, non ha più fiducia nella democrazia di queste istituzioni, e quel che è peggio, non si riconosce più in un’idea di società, in una visione del mondo, in qualcosa che vada oltre il proprio egoistico “particulare”.
In una società così frammentata e debole è difficile esporsi, andare contro-corrente, uscire dal gregge. I più dignitosi, di fronte al sistema-Montante, hanno taciuto, non si sono allineati, non si sono consegnati. Avanzare perplessità, segnalare l’odore di bruciato in quella kermesse spettacolare-mediatica, avrebbe significato essere accusati di indebolire gli “apostoli della legalità” come li ha definiti un ministro, sparare sulla Croce Rossa, ostacolare la rigenerazione, perfino passare per collusi con la vecchia mafia. A parte qualche voce isolata, non ci sono state azioni di contrasto adeguate, fino a quando non si è mossa la magistratura.
Ma penso che un sistema, per essere tale, ha bisogno di penetrare nella società, di organizzarla a suo uso e consumo, di gestirne gli interessi, di muovere le persone che si lascino utilizzare, un sistema coinvolge tutti, e non basta decapitarlo con le azioni giudiziarie, se la sua struttura sociale rimane configurata alla dinamica scambio-sottomissione».
Leggendo la tesi, viene spontaneo istituire un parallelo tra l’avvocato Vito Guarrasi e Beppe Lumia. Potresti brevemente delineare differenze e analogie tra queste due figure e i contesti che le esprimono?
«Mi sono attenuta a fatti documentati, sarebbe stato facile scivolare nella fanta-politica, ma non sarebbe scientifico, né utile. Guarrasi, “l’avvocato dei misteri” come è stato definito in un libro geniale che gli è stato dedicato, ha operato nel sistema della prima Repubblica, e ha avuto la necessità di servirsi dei partiti, di governo e non, come interlocutori indispensabili, per dare corpo istituzionale alle costellazioni di interessi che la Regione ad autonomia speciale ha garantito e consolidato (la vicenda del “milazzismo” è emblematica in questo senso); e ha operato rifuggendo da ogni visibilità mediatica, sullo stile dei “consigliori” della politica di potere. Lumia, personaggio di spessore non lontanamente paragonabile, da molti ritenuto la mente politica del sistema “double face”, ha puntato sulla mediatizzazione del brand “legalità e sviluppo” per accreditare, da esponente di un partito della sinistra (è stato anche presidente della Commissione Parlamentare Antimafia), una nuova classe dirigente imprenditoriale che ha prosperato su quella disintermediazione tra cittadini e istituzioni che ha certificato l’inconsistenza e l’inefficacia dei partiti come strumenti democratici della rappresentanza. Nella vicenda Montante-Crocetta le forze politiche sono state totalmente subalterne al progetto dei poteri criminali, anche nelle espressioni istituzionali più alte, proprio mentre un esponente politico gestiva in prima persona, per conto dei “colletti bianchi”, la mediazione all’interno delle istituzioni».
Pensi di proseguire la tua ricerca sulla mafia e sulle caratteristiche che assume oggi, dopo la scoperta del sistema che gravitava intorno al paladino della legalità? Soprattutto, secondo te, quel sistema è finito?
«Un sistema pervasivo e strutturato intorno ad interessi forti secondo me trova sempre il modo di radicarsi nella società, con fasi alterne di espansione e “sommersione”, così come in Sicilia, purtroppo, è avvenuto storicamente. Se i soggetti di punta cadono sotto le indagini giudiziarie e gli esiti processuali, anche per il delirio di onnipotenza che li ha portati ad eccedere e a fare saltare gli equilibri, i gruppi d’affari trovano nuovi personaggi e forme di organizzazione per sostituirli.
Penso questo perché, nonostante le iniziative giudiziarie e il lavoro dei comparti sani dello Stato democratico, che hanno agito, decapitato apparentemente il “sistema”, non si registrano dinamiche di sviluppo alternativo, liberate dagli interessi “blindati” che risucchiano le risorse pubbliche e gestiscono le scelte, orientando le decisioni (o le non-decisioni) delle istituzioni. Pensiamo al settore dei rifiuti, delle energie rinnovabili, o al settore del turismo o dell’agricoltura, che avrebbero enormi potenzialità e che invece sono dominati dalle storiche “gabbie” di interessi opachi che ne imbrigliano gli sviluppi possibili.
L’alternativa è quella che il giudice Falcone indicava già nel 1982: “Assoggettamento versus Libertà morale” è la sintesi del conflitto civile, oltre che socio-politico, che attraversa la vita e la coscienza delle persone che vivono e lavorano nei nostri territori. È indispensabile disinnescare le dinamiche di sottomissione, gli alibi della rassegnazione, soprattutto nei giovani, che hanno l’energia, la cultura e la capacità di pensare e generare iniziative di sviluppo, come dimostrano i nostri ragazzi quando vanno a studiare e a lavorare al nord e riescono ad affermarsi magnificamente. Perché non deve essere possibile anche qui cambiare il “contesto”? Il futuro, non solo il passato, è la nostra responsabilità».